Nuovo ciclo di incontri alla Fondazione Faraggiana: si parlerà di alimentazione, di clima, di siccità, di migrazioni, di biodiversità, di agricoltura e di come si debbano affrontare i temi non in modo fideistico, ma in maniera corretta, su basi valutative comprovate e scientificamente solide.

A cura di Valerio Calzolaio, Scrittore e Giornalista

La biodiversità è ripartita in modo assai diseguale sulla superficie terrestre. Negli ecosistemi insulari (per definizione meno interagenti di quelli terrestri contigui) il numero di specie per chilometro quadrato è in genere inferiore a quello della terraferma, ma le specie ospitate spesso non si trovano da nessun’altra parte e, in un lungo periodo storicamente determinato, sono pertanto endemiche. La crisi della biodiversità ha il suo culmine proprio sulle isole: almeno il 60% delle specie estinte nel mondo erano specie insulari; il 40% delle specie la cui esistenza è in pericolo vive sulle isole. E ciò vale in parte anche per le espressioni culturali umane di Homo sapiens. Nessun gruppo della nostra specie è ormai endemico, noi siamo tutti meticci. I nessi chiave della biogeografia insulare (isolamento-immigrazione, superficie-estinzione, nanismo-gigantismo) sono radicalmente cambiati a causa dell’intervento umano (perdita di habitat, sfruttamento eccessivo, modifica delle interazioni tra le specie), un processo enorme e accelerato in epoca contemporanea. In particolare, i rischi dell’innalzamento del mare sono evidenti, acclarati, fondanti. Nello scenario peggiore del rapporto IPCC molte isole spariranno: i profughi climatici (auspicabilmente) vivranno altrove, disperdendosi come popolazione statuale; gli stati non avranno alcun ecosistema proprio, forse governi in “esilio” (forzato, causato dai cambiamenti climatici antropici), sovrani senza territorio.